Commento al Vangelo della Domenica

Commento alle Letture della Messa della Domenica

Natale del Signore (Anno A) – 25 dicembre 2025

L’umile sapienza del bue e dell’asino

Tra le figure che abitano stabilmente il nostro presepe, il bue e l’asino occupano un posto affettivo e quasi inevitabile. Ma Luca non li nomina e Matteo neppure. La scena evangelica della nascita è molto sobria; non appare né una stalla né una grotta, ma solo una parola che ricorre con insistenza, a segnare il luogo dell’evento: la mangiatoia. Vi è un’essenziale povertà di dettagli. Da dove, dunque, provengono il bue e l’asino? Non dalla volontà di colmare lacune narrative, né dal desiderio di rendere più realistica la scena. L’origine è molto più antica e teologicamente articolata e nasce dall’ascolto della Scrittura nella liturgia dei primi secoli, quando la comunità cristiana meditava l’inizio del libro di Isaia nei giorni immediatamente precedenti al Natale.

Il profeta, all’inizio del suo libro, lancia un’accusa all’ingratitudine del popolo: «Il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende» (Isaia 1,3). È un versetto di grande forza simbolica: gli animali riconoscono chi li nutre, mentre l’uomo smarrisce la memoria del suo Dio. Quando questo testo veniva ascoltato insieme al racconto lucano – dove il bambino è deposto proprio in una mangiatoia – il legame era immediato. In latino Isaia dice: asinus novit praesepe domini sui. La parola praesepe, “greppia”, è la stessa che la tradizione cristiana avrebbe poi scelto per designare la scena della nascita.

Da questa vicinanza linguistica e teologica nacque l’intuizione: accanto al Bambino deposto nel prato della sua umiltà, si collocarono gli animali che, secondo Isaia, sanno riconoscere il loro Signore. Il bue e l’asino sono dunque un commento visivo alla Scrittura, una predicazione muta che parla per contrasti: gli animali comprendono ciò che spesso sfugge all’uomo. Non sono elementi decorativi, ma figure profetiche. Nel presepe, la loro presenza chiede a chi guarda di comprendere: il Signore è qui, ti nutre, si offre a te. Lo riconosci? La tradizione patristica ha poi arricchito il simbolo con ulteriori sfumature. Il bue, animale del sacrificio nel tempio di Gerusalemme, è stato letto come rappresentazione di Israele, la comunità della promessa e dell’attesa messianica. L’asino, considerato impuro nella legislazione antica, è diventato il simbolo delle genti, dei popoli lontani, di chi ancora non conosceva il Dio di Abramo. Nel presepe, dunque, questi due animali stanno insieme come immagini dell’intera umanità: chi appartiene alla storia d’Israele e chi arriva da orizzonti remoti, entrambi raccolti attorno a un Bambino che viene per tutti. Significativa è, poi, la postura con cui l’arte cristiana li ha raffigurati: non distesi in un atteggiamento di riposo, ma in posizione vigile, quasi adorante. È il mondo creato che riconosce la sua origine; è la realtà umile e quotidiana che intuisce la presenza del suo Signore.

Questi simboli antichi non sono estranei al nostro tempo. Oggi, più dell’ostilità verso il Vangelo, pesa la distrazione: una sorta di anestesia dello sguardo che ci abitua a tutto e non ci fa riconoscere più nulla. Il Natale ripropone la domanda di Isaia: che cosa siamo capaci di riconoscere davvero? La frenesia delle feste, le luci, gli impegni possono trasformarsi in una grande mangiatoia che non nutre più: tutto è pieno, e tuttavia tutto resta vuoto.

Il presepe, con la sua calma disarmante, ci restituisce la capacità di vedere. Il Natale non chiede di riempire la scena, ma di riconoscere ciò che dà vita. Davanti a una mangiatoia, un Dio che si fa piccolo continua a cercare il nostro stupore.

don Gianni Carozza, sacerdote e biblista