Commento al Vangelo della Domenica

Commento alle Letture della Messa della Domenica

domenica fra l’Ottava di Natale

Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe (Anno A) – 28 dicembre 2025

Una voce più forte di ogni Erode

Il Vangelo della Santa Famiglia ci presenta una scena di grande concretezza: una famiglia costretta a fuggire per salvare un bambino. Giuseppe riceve un messaggio in sogno: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto». Quell’“alzati”, nel testo originale, richiama l’idea del risveglio. È come se Dio gli dicesse: non lasciarti paralizzare dalla paura, reagisci, custodisci la vita che ti è affidata.

La fede di Giuseppe nasce così: non dal comprendere tutto, ma da un piccolo, decisivo movimento del cuore. La fuga in Egitto non è un episodio isolato. È la storia stessa di Israele che ritorna: anche il popolo aveva conosciuto la minaccia, l’esilio e la protezione di Dio. Gesù rivive quelle tappe fin dall’inizio della sua vita. Il Figlio di Dio entra nella nostra storia non da spettatore, ma da dentro: sperimenta insicurezza, ostilità, precarietà. È un messaggio forte: Dio non ci salva rimanendo lontano dai problemi, ma condividendo fino in fondo la nostra condizione umana.

Tutti i movimenti di questa famiglia – partire, fuggire, tornare, cercare un luogo dove abitare – parlano ancora oggi. Ci sono famiglie costrette a lasciare la propria terra per guerra o persecuzione; e ci sono famiglie che non si muovono geograficamente, ma conoscono ugualmente la fatica: instabilità nel lavoro, tensioni negli affetti, malattie, preoccupazioni per i figli, lutti che lasciano senza fiato.

La Santa Famiglia non è un’immagine idealizzata, ma un compagno di strada per chi vive giorni difficili. La loro vicenda dice che Dio non abbandona chi attraversa la notte, e che la sua protezione spesso passa attraverso gesti semplici: una decisione fiduciosa, un passo coraggioso, una scelta custodita nel silenzio. Quando Erode muore, Giuseppe spera finalmente di rientrare a casa. È il desiderio di tutti: fermarsi, ritrovare stabilità, ripartire con serenità. Ma anche questo progetto viene rimesso in discussione: un nuovo pericolo costringe la famiglia a cambiare ancora direzione. Alla fine si stabiliscono a Nazaret, un villaggio povero e nascosto. Eppure proprio lì Gesù crescerà. È una lezione preziosa: la pace spesso si trova nei luoghi che non avevamo previsto, nelle parti più semplici e nascoste della vita. A questo punto sorge spontanea una domanda: perché noi non riceviamo sogni così chiari come quelli di Giuseppe? In realtà, come cristiani abbiamo un dono ancora più grande: il Vangelo. “Angelo” e “Vangelo”, in greco, condividono la stessa radice: entrambi rimandano all’annuncio. L’angelo porta un messaggio; il Vangelo è il messaggio stesso. Ma il Vangelo possiede qualcosa in più: il prefisso eu- che significa “buono, bello”. È la buona notizia che illumina la vita. Ciò che un angelo potrebbe sussurrarci in un sogno, il Vangelo ce lo offre con maggiore chiarezza, mentre siamo svegli.

Se accolto ogni giorno, anche per pochi istanti, il Vangelo diventa una luce che orienta i passi: nei conflitti apre alla riconciliazione, nelle difficoltà invita a rimettersi in cammino, nelle fatiche quotidiane fa intravedere orizzonti più ampi.

Finché sapremo lasciarci guidare da questa Parola e custodire la capacità di sognare, il nostro cuore resterà giovane.

don Gianni Carozza, sacerdote e biblista

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Natale del Signore (Anno A) – 25 dicembre 2025

L’umile sapienza del bue e dell’asino

Tra le figure che abitano stabilmente il nostro presepe, il bue e l’asino occupano un posto affettivo e quasi inevitabile. Ma Luca non li nomina e Matteo neppure. La scena evangelica della nascita è molto sobria; non appare né una stalla né una grotta, ma solo una parola che ricorre con insistenza, a segnare il luogo dell’evento: la mangiatoia. Vi è un’essenziale povertà di dettagli. Da dove, dunque, provengono il bue e l’asino? Non dalla volontà di colmare lacune narrative, né dal desiderio di rendere più realistica la scena. L’origine è molto più antica e teologicamente articolata e nasce dall’ascolto della Scrittura nella liturgia dei primi secoli, quando la comunità cristiana meditava l’inizio del libro di Isaia nei giorni immediatamente precedenti al Natale.

Il profeta, all’inizio del suo libro, lancia un’accusa all’ingratitudine del popolo: «Il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende» (Isaia 1,3). È un versetto di grande forza simbolica: gli animali riconoscono chi li nutre, mentre l’uomo smarrisce la memoria del suo Dio. Quando questo testo veniva ascoltato insieme al racconto lucano – dove il bambino è deposto proprio in una mangiatoia – il legame era immediato. In latino Isaia dice: asinus novit praesepe domini sui. La parola praesepe, “greppia”, è la stessa che la tradizione cristiana avrebbe poi scelto per designare la scena della nascita.

Da questa vicinanza linguistica e teologica nacque l’intuizione: accanto al Bambino deposto nel prato della sua umiltà, si collocarono gli animali che, secondo Isaia, sanno riconoscere il loro Signore. Il bue e l’asino sono dunque un commento visivo alla Scrittura, una predicazione muta che parla per contrasti: gli animali comprendono ciò che spesso sfugge all’uomo. Non sono elementi decorativi, ma figure profetiche. Nel presepe, la loro presenza chiede a chi guarda di comprendere: il Signore è qui, ti nutre, si offre a te. Lo riconosci? La tradizione patristica ha poi arricchito il simbolo con ulteriori sfumature. Il bue, animale del sacrificio nel tempio di Gerusalemme, è stato letto come rappresentazione di Israele, la comunità della promessa e dell’attesa messianica. L’asino, considerato impuro nella legislazione antica, è diventato il simbolo delle genti, dei popoli lontani, di chi ancora non conosceva il Dio di Abramo. Nel presepe, dunque, questi due animali stanno insieme come immagini dell’intera umanità: chi appartiene alla storia d’Israele e chi arriva da orizzonti remoti, entrambi raccolti attorno a un Bambino che viene per tutti. Significativa è, poi, la postura con cui l’arte cristiana li ha raffigurati: non distesi in un atteggiamento di riposo, ma in posizione vigile, quasi adorante. È il mondo creato che riconosce la sua origine; è la realtà umile e quotidiana che intuisce la presenza del suo Signore.

Questi simboli antichi non sono estranei al nostro tempo. Oggi, più dell’ostilità verso il Vangelo, pesa la distrazione: una sorta di anestesia dello sguardo che ci abitua a tutto e non ci fa riconoscere più nulla. Il Natale ripropone la domanda di Isaia: che cosa siamo capaci di riconoscere davvero? La frenesia delle feste, le luci, gli impegni possono trasformarsi in una grande mangiatoia che non nutre più: tutto è pieno, e tuttavia tutto resta vuoto.

Il presepe, con la sua calma disarmante, ci restituisce la capacità di vedere. Il Natale non chiede di riempire la scena, ma di riconoscere ciò che dà vita. Davanti a una mangiatoia, un Dio che si fa piccolo continua a cercare il nostro stupore.

don Gianni Carozza, sacerdote e biblista